Recensioni concerti

I report dei più importanti concerti in Italia: band italiane e internazionali, rock, pop, elettronica, punk, alternative e molto altro altro ancora. Photogallery e recensioni, report e scalette del concerto, immagini, video e racconti di tutta la musica live in Italia.

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BRUNORI SAS Live – Vol. 3 IL CAMMINO DI SANTIAGO IN TAXI | Opening Act – MOLLA

12 aprile 2014 – Demodè Club, Modugno (BARI)

“Arrivederci amarezza, oggi mi godo questa dolcezza e domani chissà…”

Dario Brunori e la sua “piccola impresa musicale”, la Brunori Sas, zittiscono il vociare del demodè. Puntuale Dario fa il suo ingresso sul palco e va ad accomodarsi al pianoforte. Bastano poche note per capire quale canzone ha l’onore di aprire il concerto: “Arrivederci Tristezza”. Accolta con urla soffocate di gioia, il pubblico emozionato accompagna il Nostro dalla prima all’ultima strofa. Tutti cantano con tutti. Lasciandoci l’amarezza alle spalle voliamo sulle note della più vivace “Il Santo Morto” per la quale “abbiamo perso l’abbonamento alla rivista di Padre Pio” dice Dario ridendo. La poesia del cantautore abbraccia tutte le fasce d’età: ironicamente, guardando una famigliola nel pubblico, immagina come il bimbo avrebbe di sicuro preferito essere a casa a vedere Peppa Pig. E continua: “Ma sono tutti tuoi? C’è la crisi demografica ma tu dai una mano, complimenti”. Quello con il pubblico è un continuo dialogo, una comunione di contentezza per essere lì – nello stesso posto e alla stessa ora – a condividere qualcosa che allontana la tristezza e che, per dirla con le parole di Dario, scaccia le mosche del malumore. E si va avanti. Per “la tradizione post punk new wave” una inedita versione di “Lei, lui, Firenze” rapisce e conquista. Parentesi gossippara da far invidia a Barbara D’Urso è quella in cui Dario ci mette a parte della nascita del suo nipotino, tale Piripicchio Brunori. “Lasciatemi un po’ speculare sulla mia famiglia”. “Fra milioni di stelle” fa venir voglia di baciare e abbracciare chiunque. La sala del demodè è gremita, non si respira, il caldo è infernale, lo si soffre anche sul palco. E infatti Brunori promette di togliersi la giacca di flanella a fine concerto che tanto se l’è messa solo per fare un po’ il figo. Intanto però già qualcuno lo incita con il solito tormentone: “Nudo! Nudo!”. Il pubblico viene asperso dall’acqua santa del sudore di Dario, gocce preziose della sua fronte che lui sparge come una benedizione. Gli animi si quietano quando torna al pianoforte. Commossi si ondeggia su “Kurt Cobain” e “Nessuno”. Le mani si alzano e qualcuno tira su accendini. Troppi, invece, quelli che tirano su smartphone e tablet vari ed eventuali (sigh!).  “Le transenne sottopalco – ammonisce Dario – dovrebbero servire a contenere il pubblico dal desiderio di possedere fisicamente il cantante e non per appoggiarsi a riposare!”. E così si riprende quota con “Come stai” e “Mambo reazionario”. Brunori è un animale da palcoscenico, un trascinatore di folle. Siccome però “la situazione è troppo festaiola, ecco un reading sulla morte”. In realtà si procede con l’incantevole “Una domenica notte” e si viene presi da una specie di ottimismo senza una ragione. Ancora, inarrestabile, Dario attacca con “Le quattro volte” passando in rassegna capodanni, carnevali, Natali, prime comunioni e primi funerali e duecento capodanni ancora. E “si può nascere un’altra volta, poi rinascere ancora un’altra volta se ti va”. La tripletta finale è esplosiva, sono i pezzi che tutti aspettavano: “Italian Dandy”“Tre capelli sul comò” e “Guardia 82”. E’ una vera e propria festa, un tripudio di risa. “Grazie di cuore Bari, ci stiamo davvero scialando!”, l’entusiasmo generale non è spezzato dalla fine del concerto e con il bis di “Sol come sono sol” e “Rosa” il demodè esplode col botto. La Brunori Sas chiude in bellezza. Saluti, applausi e poi finalmente l’aria fresca della notte restituisce ossigeno ai nostri polmoni esausti ma felici.

 

Live Report a cura di Marianna McFly Castellano

 

Diciamolo subito: i re del post-rock sono ancora loro.

A 17 anni di distanza da “Ten Rapid” e “Young Team”, che ne rivelarono l’ispirazione e la potenza questi ragazzi scozzesi sanno ancora regalare serate da brividi, riuscendo a coniugare intensità chitarristica e intensità emotiva, spalancando le porte su un mondo fatto di suggestioni ed immagini uniche.

Sono le 22 quando i Mogwai salgono sul palco dell’Estragon, già sold-out in prevendita e decidono di aprire le danze con “Heard about you last night”, brano apripista anche nel loro ultimo lavoro “Rave Tapes”: si capisce subito come andrà la serata, con gli amplificatori che vibrano e le teste del pubblico che si muovono all’unisono, istantaneamente rapite da quello che stanno ascoltando.

Basta chiudere gli occhi e ci si ritrova su una scogliera scozzese, sferzata dall’oceano, con le chitarre che, come vento impetuoso, spettinano i capelli e i pensieri, mentre le percussioni affondano senza freni. E’ “Rano Pano” e subito dopo, senza respiro, arriva “I’m Jim Morrison, I’m dead”, accolta da un boato di tutto l’Estragon, che sembra muoversi all’unisono, come, appunto, un’onda di quell’Oceano Atlantico sul quale si affaccia la Scozia tanto cara a Stuart Braithwaite e soci.

Con “Mastercard” si vira verso un rock più classico, a tratti ipnotico, rispetto alla lunga suite di “Jim Morrison”, quasi che adesso si stesse rivivendo la scena di un film al rallentatore, fissando l’attenzione sui dettagli.

Questo fanno i Mogwai, riescono a spostare (e a farti spostare), nell’arco di un paio di pezzi, lo sguardo e l’attenzione su ciò che loro vogliono valorizzare, che sia un dettaglio strumentale o piuttosto l’atmosfera circostante, in un eterno gioco di rimandi che non sfocia mai nell’autocompiacimento, nel dirsi “quanto siamo bravi”….e bravi lo sono sul serio!

E’ questa la loro forza, far apparire tutto di una semplicità disarmante, tutto casuale, quando tutto invece è perfettamente studiato, proprio come in “Ithica 27 o 9”, tuffo nei ricordi di quei Mogwai che iniziavano nel 1997 e già sbalordivano tutti.

Salto in avanti ed ecco “Deesh”, che getta sull’Estragon un alone di cupezza e rabbiosa malinconia, subito rasserenata da “How to be a werewolf” e dalle sue sonorità più ariose, che ti fanno muovere e sorridere, come in una giornata estiva in cui si ha voglia di fuggire verso il mare.

“Blues hour” colpisce per la sua solennità e perché per la prima (e unica) volta nella serata si sente cantare Braithwaite, che si limitava altrimenti a ringraziare sentitamente il pubblico bolognese, davvero caloroso e attento come si conviene ad una platea che osservi i Mogwai.

“Mogwai fear Satan” è una vera esplosione di potenza e di incanto, con rallentamenti e ripartenze da urlo, meraviglioso spaccato su quella che è la cifra stilistica di questi ragazzi di Glasgow, ma il vero apice si raggiunge al momento del bis, quando i Mogwai si spendono in tre pezzi da lasciare senza fiato, primo tra tutti “White noise”, seguita a ruota da una commovente “Auto rock”, intensa come non mai, per finire con il rock liberatorio di “Batcat”, una vera bomba sganciata sui presenti.

In un’ora e mezza di show i Mogwai riescono a presentare e a far sentire a proprio agio nel loro mondo sonoro, nelle loro mille sfumature, regalando istanti di pura poesia musicale.

Quando la precisione è talmente perfetta da apparire casualità, si sta assistendo a qualcosa di straordinario. E quel qualcosa, probabilmente, sono i Mogwai.

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I Camel arrivano in Italia dopo 14 anni con un tour celebrativo, “The Snow Goose”, a ricordare lo storico compagno di band Peter Bardens purtroppo scomparso. Tocca all ‘Hiroshima Mon Amour di Torino ospitare il primo di due appuntamenti.
La formazione è composta da numerosi dei membri storici che si sono susseguiti negli anni: Andy Latimer (chitarra, voce, flauto), Colin Bass (basso, voce, tastiere, chitarra acustica), Guy LeBlanc (tastiere) e Denis Clement (batteria), ospite speciale il tastierista Jan Schelhaus.
L’evento è sold out e il pubblico presente sembra affamato di buona musica, così alle 22 in punto inizia il live: a rompere il ghiaccio è il tocco di chitarra unico di Latimer sulle note di “The great mark” seguita da “Rhayader”. Le successive due ore di musica sono state un sublime tuffo in tutta la discografia dei Camel, riff brillanti e coinvolgenti che hanno lasciato a bocca aperta tutti i fans.
Una pausa ha diviso lo show in due parti, giusto il tempo di far riposare il frontman Andy Latimer, ma poi la canzone “Never let go” seguita da “Song within a song“ hanno dato il via alla seconda ora di puro progressive rock.
A chiudere la serata è stato il brano “For today”, dove è scattata una vera e propria standing ovation del pubblico che, non avendone abbastanza, ha chiamato ancora la band per un ultimo pezzo “Lady fantasy”.
I fans più temerari hanno aspettato impazienti l’aftershow; la band è uscita dai camerini e si è concessa un bicchiere di vino, quattro chiacchiere e un po’ di foto ricordo. Personalmente, considero questo concerto uno degli show più belli e emozionanti degli ultimi anni e si spera di rivederli presto nel nostro bel paese.

Ecco la scaletta THE SNOW GOOSE

The great mask
Rhayader
Rhayader goes to town
Sanctuary
Fritha
The snow goose
Fiendship
Migration
Rhayander Alone
Flight of the snow goose
Preparation
Dunkirk
Epitaph
Fritha alone
La princesse perdue
The great Marsh (reprise)

SECOND HALF
Never let go
Song within a song
Echoes
The hour candle ( a song for my father)
Tell me
Watching the bobbins
Fox hill
For today

ENCORE
Lady fantasy

Si ringrazia Hiroshima Mon Amour e Blue Sky Promotion per l’invito.

Live report e photogallery a cura di Marco Cometto

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Venerdì 21 marzo 2014 al Demodè club prima data pugliese de “Il nuovo tour dei Nobraino”, con il quale si presenta al pubblico “L’ultimo dei Nobraino”, quarto album della band romagnola.

Alle 23.15 iniziano i primi cori che, scandendo il nome dei nostri, chiamano a gran voce il gruppo sul palco per dare il via alla serata.  Un sempre più costante afflusso di persone riempie il demodè, finché, alle ‘dodicimenounquarto’,  Fabbri, Barbatosta, Bartok e il Vix si posizionano agli strumenti ed iniziano il soundcheck. Tutti quindi meno Kruger, che entra in scena solo dopo essere stato accolto dalle note de “Il muro di Berlino” e dall’entusiasmo generale. L’impatto visivo è sorprendente: l’abbigliamento sopra le righe, le luci, i props, ricreano un ambiente colorato, disimpegnato ed euforicamente coinvolgente. L’unica nota dolente è rappresentata da uno scarso volume del microfono del cantante, la cui voce è così sovrastata dalla musica. Tant’è che il concerto inizialmente stenta ad ingranare, ci si muove ancora timidamente come imbarazzati dall’idea di lasciarsi andare. Si sentono solo dei fievoli “bla bla bla” che ricalcano le parole del testo. Dopo un paio di nuove tracce è “Bigamionista”, primo singolo estratto dall’album, a cambiare le carte in tavola: sui primi accordi di chitarra all’improvviso la folla si infiamma, si risveglia e accompagna Kruger per tutta la durata della canzone. Sull’eccitazione ormai ritrovata parte “Jacque Pervèrt” – dedicata  a tutte quelle coppie in sala ormai consolidate – pezzo che inquadra l’imbarazzo e l’ipocrisia di chi nasconde i propri feticismi sessuali per poi andare a realizzarli con partners occasionali: “Baci qui, baci là pudore e castità però poi vado a far sesso con la pornostar”. A seguire “Endorfine”, che gioca sul concetto di droga rendendolo universale e impossibile da sfuggirvi: “si droga il tipo che fa le gare con la bicicletta, si droga quello con la sigaretta e le slot machine… si droga il tale per sopportare l’ansia ed il dolore si droga l’altro che vuol dormire, si droga il nonno da quando non gli tira più l’uccello, si droga mamma per restare bella”. Ci si cimenta anche in una cover di “Hotel Supramonte” di De Andrè e a metà concerto Kruger si ritira dietro le quinte per un veloce cambio d’abito e pausa birra intervallato da Moby Dick dei Led Zeppelin. Agli occhi di tutti è ormai chiaro lo spettacolo vero e proprio del concerto, il cabaret di qualità offerto: tra dondolii sulla corda, cappelli che volano, telefoni come microfoni, i Nobraino entrano in profondo contatto con il pubblico, la quarta parete cade, è inesistente. Si passa al repertorio, ai pezzi da novanta tratti dai precedenti album, ed è una vera e propria festa: stage divings, discese dal palco con “Bademeister”, “Spider Italiana”, e l’immancabile rasatura di una “cavia” sotto le note de “Il mangiabardiere”. Qualcuno grida “Bifolco!”, ma la tromba irriverente di Barbatosta fa la preziosa e arriva solo come penultimo brano. Il concerto si chiude con “I signori della corte” e Kruger che si lascia trascinare su di una scala, ringraziando per la serata, che nonostante le premesse iniziali si è rivelata essere entusiasmante.

I Nobraino mettono in crisi gli amanti delle etichette poiché il loro stile fonde più generi insieme in uno shift di atmosfere a cui si fatica star dietro.

Speriamo davvero non sia l’ultimo.

 

Live Report a cura di Marianna McFly Castellano

Photo Credits: Annamaria Frascella

Un Alcatraz sold-out ha accolto ieri gli Zen Circus in occasione della terza tappa del trio pisano, tornato sulle scene dopo oltre un anno di pausa: Andrea Appino, Karim Qqru e Massimiliano “Ufo” Schiavelli infatti, dopo aver dato alle stampe lo scorso 21 gennaio il lavoro inedito “Canzoni contro la natura” – il terzo completamente in lingua italiana – all’inizio di marzo hanno intrapreso un tour che li vedrà protagonisti di numerosi concerti in giro per l’Italia da qui a fine aprile.  Dopo una carichissima data zero a Bologna ed un secondo appuntamento a Livorno che hanno rotto il silenzio, ieri sera è arrivato il momento di un nuovo concerto a Milano, città che ricambia sempre il gruppo con enorme affetto.

In apertura si sono esibiti Giovanni Truppi e Progetto Panico, mentre gli head-liner hanno fatto la loro comparsa on stage intorno alle 22.00. La folla, nella quale si aggiravano anche alcuni colleghi illustri quali Dente e Ministri, li ha salutati con un boato e lo show ha subito preso il via. Il nuovo brano “Viva”, tra i più riusciti del recente disco, ed è stato accolto in maniera corale e sostenuta dal pubblico, scatenato in danze e canti fin dalle prime note. Insieme a “Postumia” e “Vai vai vai” è tra i più rappresentativi di quel tipo di scrittura che ha fatto degli Zen una delle realtà più interessanti del panorama alternative italiano degli ultimi dieci anni, oltre che un’efficace e lucidamente ironica fotografia in musica di una realtà italiana al tracollo. La scaletta però è stata caratterizzata da continui salti temporali, e le chicche estratte da “Nati per subire” e “Andate tutti affanculo” non sono mancate: abbiamo infatti potuto ascoltare i pezzi che danno il titolo ad entrambi gli album ma anche, solo per citarne alcuni, “L’amorale”, “I qualunquisti”, “We Just Wanna Live”, “L’egoista” e infine “La canzone di Natale”, che Appino e soci sanno rendere adatta al momento in ogni mese dell’anno. Le sorprese sono proseguite con balzi indietro addirittura a “Villa Inferno” (“Vent’anni” e “Figlio di puttana”); inoltre  il batterista Karim, sempre rigorosamente a dorso nudo, come di consueto ha sfoderato la sua washboard scatenandosi davanti ai ragazzi delle prime file. Un divertente siparietto con le notizie del tg di Lercio ha separato la prima parte del live dall’encore, e dopo un’ora e mezza di passione, musica e risate, abbiamo dovuto arrenderci all’evidenza e avviarci all’uscita.

Con una vocazione particolare nel dare voci a paure, sensazioni e percezioni comuni a tutti (ma che pochi sanno esternare in maniera così nitida) gli Zen Circus potrebbero essere definiti un po’ poeti del nostro tempo e un po’ veggenti nel precorrere la storia in maniera azzeccata. Ad ogni modo dopo questa lunga assenza dal palco, ieri all’Alcatraz di Milano hanno saputo farsi perdonare alla grande.

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Son passati quasi tre mesi dalla mia ultima recensione che, guarda caso, riguardava una performance proprio nel luogo dove sono stato mercoledì sera: il Factory di Milano.
Il gruppo di cui ora vado a narrarvi le imprese erano previsti dal vivo ai Magazzini Generali, ma a pochi giorni dall’evento, la data è stata posticipata a dopo quella di Roma, nel locale Blackout.
Sto parlando di un gruppo nuovo, uscito da poco nel panorama musicale inglese indie ma che ha già riscosso un enorme successo; dopo vari EP pubblicati è arrivato finalmente il loro album di debutto e si sono già fatti notare aprendo, lo scorso anno, il concerto dei Two Door Cinema Club: sto parlando dei THE 1975.

Dopo esser arrivato a destinazione, ho avuto un attimo di panico non trovando nessuno davanti all’ingresso, ma tempo di chiedere a qualche ragazzo di passaggio e scopro che tutta la marmaglia di gente è già entrata, ritiro il mio accredito ed entro nel fatidico luogo dove suonò anche Tom Odell mesi fa.
Nonostante il locale fosse già pienissimo riesco a trovare posto in una posizione ottima. L’attesa sicuramente è stata snervante in quanto avevo voglia di rivederli, dopo essermi gustato il loro debutto un anno fa ai Magazzini: ero curioso di sapere se c’era stato un cambiamento o no nelle loro performance. Il gruppo d’apertura, totalmente italiano, non era male: si chiamavano WEMEN, 4 ragazzi in camicia molto carichi e anche molto simpatici.
Finita la loro performance, amata e anche un po’ odiata da alcuni, da quanto ho sentito, ricomincia l’attesa per gli headliner.
Il palco è illuminato, al centro, a due centimetri dalla batteria, una finestra, che non è altro che il logo della band sulla copertina del nuovo album; l’ingresso della band sul palco avviene proprio dai lati di quella finestra.

The 1975 è l’intro d’apertura, omonima traccia presente nel loro album di debutto. I ragazzi entrano, la folla impazzisce, li acclama, loro salutano e parte l’attacco di batteria per la canzone The City.
Ecco che proprio in quel momento le mani si alzano a ritmo di questo brano, ci si muove perché con loro è difficile non farlo: non è uno di quei concerti in cui si salta, poga; è invece il classico concerto tranquillo, ma allo stesso tempo pieno di energia traboccante da ogni amplificatore.
Le canzoni non solo provengono dal primo album, come per esempio la bellissima M.O.N.E.Y, ma anche dai vari EP pubblicati precedentemente: tutt,i e dico tutti, siamo esplosi a sentire le note di So Far ( It’s Alright) contenuta nell’EP “IV”.
Un altro momento indimenticabile è stato quando hanno suonato il loro ultimo singolo “Settle Down”, canzone che ti mette proprio voglia di muoverti a ritmo.
Ma come ci sono i momenti carichi, ci sono quelli dolci e tranquilli: Mattie, il cantante, ci ha dedicato Fallingforyou (scritta proprio tutto attaccato) e subito dopo You, provenienti tutti e due da vari EP precedenti.
La band comunque non si ferma, i 1975 sono molto carichi, con voglia di suonare e si vede anche se l’acustica certe volte dava a desiderare.
Ecco che arriva Girls, altro loro singolo, con un video a dir poco bellissimo e originale, che fa esplodere il locale: tutti ballando, cantano, alzano le mani e il gruppo è lì che suona con una carica incredibile, anche Mattie sembra preso da questa energia che arriva dal pubblico, sale su amplificatori, agita i suoi capelli che sono i più lunghi mai visti.
Le ultime tre canzoni sono forse le più conosciute: si parte con Robbers, una ballad toccante che ha messo in evidenza la particolarità della voce del cantante, seguita dal successone Chocolate. Per finire il concerto in bellezza e con tanta energia c’è Sex, canzone che parla di problemi adolescenziali e ovviamente di sesso. Le chitarre esplodono, la batteria impazzisce e il bassista si da alla pazza gioia per finire un concerto epico, molto ben strutturato e bellissimo.

The 1975 sono migliorati tantissimo, sono sbocciati in quello che è la loro vena artistica dell’electro-indie e questo gli fa onore. Sono una band che vale la pena sentire dal vivo, vale la pena comprarne gli album, perché se lo meritano e faranno molta strada. E quella strada, a quanto pare, passerà anche dall’Italia.

Live Report a cura di Gianluca Quadri

Sono circa le 21 e l’Unipol Arena di Bologna si è lentamente ma inesorabilmente riempita quasi totalmente.

L’evento di stasera era uno di quelli da segnare sul calendario bordati di rosso: Editors di nuovo in Italia, per un’unica data dopo il trionfo all’Alcatraz di Milano del novembre scorso.

Iniziano a spandersi nell’aria le note di “The Weight” e le luci si abbassano: è il loro momento.

Tom Smith e compagni arrivano sul palco completamente vestiti in nero e danno il via ad uno di quei live che lasciano a bocca aperta; il pezzo scelto per iniziare è “Sugar” e la spettacolarità insita in questa serata è subito rimarcata dalle fiamme  che, letteralmente, vengono sprigionate da dei piccoli cannoni messi sul palco e che, di tanto in tanto ravviveranno la serata, tanto per ricordare che, sì, agli Editors piace l’intima dimensione del palazzetto (e inizialmente avevano scelto addirittura il più piccolo PalaDozza, salvo poi essere inondati dalle richieste di biglietti dei fan italiani, evidentemente cresciuti oltre le loro stesse aspettative), ma sono comunque una band da grandi festival.

Dopo qualche piccolo problema per la chitarra di Justin Lockey, niente di irrisolvibile, il live riprende e inanella un trittico di pezzi “da brividi” per i fan, che si vedono snocciolare “Someone says” , “Munich” e “An end has a start” in un crescendo di ritmo ed intensità, con un Tom Smith che appare in grande forma ed esalta la folla con la sua vocalità corposa e cupa, ma capace allo stesso tempo di dinamiche pop, ovviamente pop di quello buono, di quello che fa cantare a squarciagola mentre sotto il basso di un saltellante Russell Leetch regala gioie ai nostalgici degli anni ’80 e delle atmosfere new wave.

“Formaldehyde” è uno dei punti più alti di questa serata piena di bellezza, un brano capace di scuoterti dentro, talmente tanta ne è la forza emotiva, anche se il vero momento che “fa scintille” arriva con “The racing rats”, quando davvero dal soffitto si sprigionano stalattiti scintillanti, a rendere ancora più magica un’atmosfera che già era incantevole.

“In this light and on this evening” aggiunge ritmo prima del gran finale,  con la potenza perfetta di “A ton of love” e l’amara dolcezza di “Honesty”, pezzo sul quale una pioggia di coriandoli argentati viene sparata sul pubblico, ormai in piena estasi.

Ma non è ancora tempo di andare a casa, c’è il bis, ed è proprio nel bis che gli Editors danno il meglio di sè con l’attesissima “Smokers outside the hospital doors” e una meravigliosa “Nothing”, prima di lasciare spazio a “Papillon” e salutare tutti, certi che torneranno presto in Italia.

Con questa intensità e qualità nei pezzi il loro pubblico è destinato ancora ad aumentare…che stiano puntando ad un tour negli stadi? Lo scopriremo con i prossimi dischi…Intanto, dopo questo live, non si può che ringraziarli con “una tonnellata d’amore”.

Scaletta concerto Editors Unipol Arena Bologna 28/02/2014

Sugar
Someone Says
Munich
An End Has a Start
Formaldehyde
Lights
Bullets
The Racing Rats
A Life as a Ghost
Eat Raw Meat = Blood Drool
All Sparks
In This Light and on This Evening
Bricks and Mortar
A Ton of Love
Bones
Honesty

Bis

Camera
Smokers Outside the Hospital Doors
Nothing
Papillon

 

Photo Credits: Roberto Finizio

 

Le luci si abbassano.

La forte musica di sottofondo si acquieta e parte invece quella che ha tutta l’aria di essere una “Intro” con i fiocchi.

Sono le 21.02 ed eccoli  che appaiono, uno dietro l’altro, così vicini e così maestosi, per l’ultima tappa del loro mini-tour italiano che li ha già visti esibirsi (con conseguenti sold-out) a Torino e Milano: i Depeche Mode sono tornati in città, a Bologna, di nuovo dopo qualche anno (quasi 5).

Quando Dave attacca “Welcome to my world”, stessa apertura della tranche estiva del tour (i pezzi che varieranno non saranno molti) si capisce subito che, davvero, per le prossime 2 ore saremo nel suo mondo, a farci elettrizzare e cullare dalla sua voce.

Difficile chiedere di più, soprattutto se si nota che il leader dei Depeche, pur un po’ raffreddato, è voglioso di regalare uno di quei live che non ti scordi più: eccolo lì che si toglie la giacca e si lascia andare nelle danze, sensuale e provocante su “Walking in my shoes”, quanto carismatico su “Precious”, mentre il pubblico è ormai nelle sue mani, in estasi.

Quando arriva il turno di “Black celebration” è il delirio: Dave si scatena e invita il pubblico a seguirlo, in una “celebrazione (nera)” collettiva ed esaltante, a cui ogni fan dei Depeche (ma direi della musica) avrebbe dovuto assistere.

Dave ci lascia poi entrare ancora di più nella sua intimità, con “In your room”, che lascia basiti ed emozionati, una vera chicca…e ovviamente Martin Gore non vuole essere da meno e dimostra di essere anche lui in formissima quando attacca “Slow” e “Blue Dress”, confermando una volta di più le sue abilità vocali.

Anche se, per i “devoti” di mister Gore il vero gioiello, quello che lascia sbalorditi e che non ti aspettavi di ascoltare, arriverà più avanti, con una sublime versione di “Judas”, uno degli apici della serata.

Inutile sottolineare il delirio in presenza dei classiconi, che hanno visto un Dave Gahan davvero padrone della scena, come suo solito, uno di quei frontman che fanno scuola: “Enjoy the silence” e “Personal Jesus”  hanno visto cantare tutti a squarciagola, in un magico ringraziamento a quello che i Depeche hanno rappresentato dall’inizio della loro storia musicale e che continuano a rappresentare ancora oggi.

Quanti sono i gruppi che, ben oltre i 30 anni di attività, possono dire di esibirsi ancora con questa forza, questa energia, sapendo sempre rinnovarsi e trascinare nuove generazioni di pubblico? Non molti direi.

E allora godiamoci i Depeche Mode, balliamo sorridenti su “Just can’t get enough” (e davvero…si potrebbe mai averne abbastanza? credo di no), sfoghiamoci su “I feel you” e abbandoniamoci, con le mani protese in movimento (a fare il “campo di grano” come lo chiamano i fan) su “Never let me down again” e speriamo che non ci facciano attendere troppo per il loro ritorno in Italia.

Non ci abbandonate….per troppo tempo!

Leggi anche la recensione della tappa a Milano dei Depeche Mode

Photo Credit: Roberto Finizio